mercoledì, luglio 08, 2009

Pluto... o il ritorno di Astro Boy

Il fumetto, come già il cinema, non è nuovo alla pratica del remake. Possiamo chiamarla riscrittura, aggiornamento o versione definitiva. Gli esempi non mancano, soprattutto in terra americana. Ma è con Naoki Urasawa e il suo Pluto che questo genere di rielaborazione acquista una dignità che trascende qualsiasi etichetta e dimostra di avere la personalità necessaria per camminare sulle proprie gambe. Mangaka noto in Italia per i già apprezzati Monster e 20th Century Boys, Urasawa fa centro ancora una volta, dimostrandosi uno degli autori completi di maggior talento sulla scena del fumetto internazionale. E lo fa con una mossa nostalgica, a suo modo anche furba, che suscita interesse a più livelli.

All’origine di Pluto c’è la dichiarata volontà del suo autore di omaggiare Osamu Tezuka, artista conosciuto in tutto il mondo come il Walt Disney giapponese e alle volte chiamato persino il “dio dei manga”. Tezuka, in effetti, inventò il fumetto e l’animazione nel suo paese, definendo manierismi ormai storici e producendo una quantità di capolavori indimenticabili. La fonte illustre scelta da Naoki Urasawa per il suo omaggio è Tetsuwan Atomu, noto in Italia come Astro Boy, e capostipite di tutti i robot nipponici che seguiranno. Protagonista della serie era Atom (in Italia Astro) un piccolo robot costruito da un geniale scienziato a immagine del figlioletto defunto. Una creatura potente e mite che non avrà vita facile nel duro mondo degli esseri di carne e sangue. Abbandonato dal padre-creatore che ha finito col detestare il simulacro del figlio morto, Atom si esibisce come fenomeno in un circo finché non viene riscattato dal dottor Ochanomizu, che riconosce il potenziale “umano” della creatura meccanica e la prende sotto la sua protezione.


Da queste linee essenziali è evidente che anche il progetto cinematografico di A.I. – Intelligenza Artificiale, meditato da Stanley Kubrick e in seguito realizzato da Steven Spielberg, doveva molto al lavoro di Osamu Tezuka. Il tema profondo del manga era la ricerca della sensibilità umana in una macchina autosufficiente. Nel mondo dipinto da Tezuka i robot, per quanto forti, erano portatori di un candore e di un rispetto per la vita ormai raro negli esseri umani. Questo li portava a essere discriminati, spesso perseguitati, in un modo che oggi ci ricorderebbe le tribolazioni dei mutanti Marvel.
Astro Boy è dunque a tutti gli effetti un’opera fondamentale da cui sono germinati parecchi semi, e non solo nella cultura fumettistica giapponese. Naoki Urasawa sceglie un ciclo ben preciso nella sterminata saga raccontata da Tezuka, e rinarra a modo suo l’episodio intitolato Il più grande robot del mondo, lasciando sullo sfondo i combattimenti robotici per imboccare la strada del mistery.


Qualcuno (o qualcosa) sta eliminando i sette robot più forti del pianeta. Più che di distruzione si può parlare di veri e propri omicidi, in quanto gli automi si sono evoluti e integrati con gli umani al punto da rendere ardua la distinzione. Ormai i robot non solo possono avere un aspetto umanoide, ma pensano in termini umani e coltivano le stesse aspettative di vita. Sono in grado di simulare atti quotidiani come mangiare e bere, pratiche descritte come rituali necessari alle intelligenze artificiali per sviluppare sempre più la loro empatia con gli esseri umani. Sentono l’esigenza di sposarsi, di adottare bambini robot per soddisfare gli impulsi genitoriali. Si pongono domande etiche, rispettano l’ambiente e lo amano più delle creature organiche. Inoltre, leggi recenti tutelano i diritti dei cittadini meccanici. Progresso sociale che qualcuno non vede di buon occhio.
Seguendo il meccanismo tipico del giallo, Urasawa mette in scena la progressiva uccisione di queste intelligenze artificiali. Non prima di avere svelato al lettore l’intrinseca umanità di ciascuno, dimostrando che dal punto di vista morale ogni distinzione tra persona biologica e persona meccanica è venuta a cadere. L’assassino lascia anche una firma. Rottami sistemati come corna sulla testa delle vittime. L’emblema di Pluto, divinità degli inferi. Presto cominciano a morire nel medesimo modo anche esseri umani, individuati tra gli artefici delle leggi a favore dei cittadini robotici, e l’ispettore Gesicht, anch’egli un evolutissimo automa, inizia a indagare.


Dell’opera di Osamu Tezuka rimane innanzitutto l’ambientazione di fondo. Una società dove uomini e robot convivono in modo spesso precario, e dove i primi devono dimostrare ogni giorno di essere ormai qualcosa di più di un semplice guscio di metallo deambulante. Rimane inoltre lo spunto del capitolo scelto, cioè l’eliminazione sistematica dei robot più potenti, ma rivisitato in chiave di racconto di indagine in cui le risposte non sono affatto scontate. Urasawa introduce i personaggi celebri della serie poco per volta, rimodellandoli secondo una chiave dark che ricorda molto il bellissimo Monster. Né lesina citazioni e piccole comparsate, con icone del maestro Tezuka estranee al mondo di Atom, ma che fanno una fugace apparizione tra le pagine per salutare quanti tra i lettori sapranno riconoscerle.

Il concetto di automa come erede di una sensibilità perduta dalla maggior parte degli umani ha radici antiche e numerosi parenti illustri. Solo per citarne qualcuno, possiamo ricordare i pulp dedicati ad Adam Link di Earl e Otto Binder. Ma soprattutto Philip Dick (a parte il celeberrimo Anche gli androidi sognano le pecore elettriche) per il racconto breve I Difensori della Terra, dove i robot (come in Tezuka e oggi in Urasawa) hanno a cuore il destino dell’ecosistema terrestre a dispetto degli stessi umani. Naoki Urasawa riesce a recuperare questi archetipi, a intonare un elogio rispettoso dell’opera del maestro, e a mixare tutti questi elementi in un racconto del mistero con un retrogusto filosofico. Forse, a tratti, l’intento di umanizzare gli automi lo spinge a esagerare con la melassa. Ma la forza del racconto prevale su queste sbavature e la lettura corre spedita senza perdere mai di mordente. Dopo Monster, Urasawa dimostra ancora una volta di saper gestire la tensione in modo magistrale. Si vedano gli incontri di Gesicht con Brau 1589, l’unico automa ad avere mai ucciso un uomo. Contrappunto narrativo che ricorda le visite dell’agente Clarice Starling ad Hannibal Lecter nei sotterranei del manicomio criminale ne Il Silenzio degli Innocenti. Tutto procede secondo un meccasimo a orologeria. I dettagli del mistero sono svelati poco per volta, e le vicende private delle vittime si incastrano nel mosaico con tragica perfezione.


Il disegno di Naoki Urasawa (pare dietro richiesta degli eredi di Osamu Tezuka) non tenta neppure di imitare lo stile del maestro, e ci regala un Atom e un Gesicht totalmente rinnovati. Ulteriore motivo di divertimento è l’apparizione in Pluto di volti noti della storia recente, collocati in ambiti che dovrebbero suggerirne le reali generalità. Pluto è un fumetto intelligente, che sa raccogliere il meglio seminato da un pioniere della nona arte per farlo rifiorire in una chiave più matura e consona a una nuova generazione di lettori. Un racconto dai toni adulti, fascinosamente in bilico tra fantascienza e giallo, introspezione e thriller.
In un industria del fumetto che ricicla da anni i supereroi secondo trend commerciali discutibili, Pluto fornisce una diversa interpretazione del concetto di remake. E se non è un capolavoro, ci va sicuramente molto vicino.

Questa recensione è stata pubblicata anche su Fantasymagazine.


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