Wonder Woman non è mai esistita. Non come la ricordiamo. Qualcuno avvolto nel mistero ha alterato la linea temporale, facendo strage delle Amazzoni, incendiando l’Isola Paradiso e modificando drasticamente il corso degli eventi. Poche cellule di Amazzoni sopravvissute si nascondono ora nella terra dei mortali, istruendo in segreto la principessa Diana, figlia della defunta regina Hyppolita, colei che è destinata a diventare Wonder Woman, e a portare sulle proprie spalle l’eredità morale di una civiltà scomparsa.
Wonder Woman, una delle icone fondamentali del cosmo DC insieme a Superman e Batman, ha sempre sofferto di cicliche crisi legate all’età. Bizzarro, considerato che parliamo di una guerriera immortale, anziana di secoli e sempre bella come Venere. Eppure, la principessa Amazzone sembra far fatica a radicarsi nell’immaginario delle nuove generazioni, e ancora una volta, in casa DC, si è deciso per l’ennesimo svecchiamento.
Il ruolo di nuovo demiurgo della principessa Diana è andato a J.M. Straczynski (Spider-Man, Supreme Power) che ha assunto il difficile compito di aggiornare un archetipo già ridisegnato da George Perez in un acclamato ciclo di fine anni ottanta. Dopo la saga Crisi sulle Terre Infinite, che azzerava decenni di continuity DC, George Perez aveva restituito Diana alle sue radici mitologiche, orchestrando una gustosa rivisitazione delle divinità olimpiche e proponendo un’intrigante ibrido tra avventura epica e racconto supereroistico. Oggi, la Wonder Woman di Straczynski si staglia contro uno scenario metropolitano dove prevalgono toni dark e il buio si tinge spesso di sangue. Straczynski cita dichiaratamente Neil Gaiman, portando in scena personaggi mitologici in una veste urbana e crepuscolare, in certi casi vagamente emo, che ricorda molto la caratterizzazione di Death, Morfeo e degli altri eterni della saga di Sandman. Né mancano ammiccamenti metafumettistici che in qualche modo citano Grant Morrison e il suo storico intervento sul personaggio di Animal Man.
«Gli dei suonano i nostri corpi, le nostre vite... E ogni tanto cambiano il ritmo. Perché? Per il loro interesse... per il loro divertimento...»
Con queste parole, l’Oracolo consultato da Diana allude in modo manifesto ai mutevoli gusti dei lettori, e alle logiche commerciali che regolano esistenza e stile dei personaggi a fumetti. Il restyling di Wonder Woman ha avuto in America una discreta eco mediatica, centrata soprattutto sul look moderno dell’Amazzone, ideato da Jim Lee. Una curiosità è relativa alla vecchia tenuta di Diana, quella discinta, che pare sollevasse perplessità da parte di molte lettrici. Come farebbe Diana a combattere in quella tenuta succinta senza rimanere nuda praticamente tutte le volte? Osservazione legittima, ma comunque peregrina. Quasi tutti gli eroi in costume esibiscono look improbabili. Si pensi alla sventolante cappa di Batman, che nella realtà sarebbe un grave impiccio. Ma tant’è. “Diana è troppo sottovalutata,” recita misticamente una voce fuori campo nelle prime tavole. “E’ il momento di cambiare”. Ed ecco che per rilanciare Wonder Woman nel nuovo millennio, la DC copre pudicamente le sue primordiali nudità, conferendole un look da agente segreto, le cui pose e curve la rendono molto simile alla marvelliana Vedova Nera.
J.M. Straczynski conosce il mestiere e offre come sempre una discreta prova narrativa. L’inizio è convulso e violento. Vedere Hyppolita morire tra le fiamme come una strega sottolinea la forza eversiva dell’identità femminile, da sempre temuta e demonizzata dal maschio. L’idea di un popolo Amazzone ormai ridotto al lumicino che vive in clandestinità disperso su tutta la terra sarebbe interessante, ma la caratterizzazione di Diana (qui più giovane della sua versione precedente) non convince del tutto. L’ispirazione mutuata da Neil Gaiman resta in superficie e il tono predominante del racconto ricorda di più registri televisivi, come quello della serie TV Charmed (in Italia, Streghe), con tanto di gatto guardiano parlante.
La nuova Diana, più che alla DC, sembra appartenere al trend marvelliano dell’etichetta Ultimate. Stesso appeal giovanilistico e un approccio simile alla violenza (raramente si è vista Diana combattere in modo così feroce). La lettura scorre, e le matite di Don Kramer sono piacevoli, ma la vera emozione latita, lasciando prevalere un vago senso di disorientamento per un personaggio che, sia pure riconoscibile, ha perso alcuni degli elementi che lo rendevano caro ai lettori più maturi. La sua innocente saggezza, la sagoma statuaria da divinità greca e l’aura di forza primigenia della natura. Tutto andato, per lasciare posto a una flessuosa ninja in calzamaglia. Paradossalmente, la Wonder Woman del nuovo corso appare più algida e conformista dell’icona che si voleva svecchiare. Il volume è completato da una manciata di storie brevi, firmate – tra gli altri – da Geoff Johns, George Perez e Ivan Reis. Quasi un dovuto confronto tra la Wonder Woman tradizionale e quella “vestita” da Straczynski. La corsa della nuova Diana è appena incominciata, e soltanto il tempo potrà dirci se e quanto durerà prima di un ulteriore mutamento o di un altrettanto prevedibile ritorno alle origini. Resta la consapevolezza che gli dei, a qualunque pantheon appartengano, potranno anche cambiare ritmo. Ma nessuno è al riparo dalla stonatura, e per quanto il concerto non sia proprio da fischiare, la sperimentazione non incanta i melomani della vecchia guardia.
Questa recensione è stata pubblicata anche su Fumettidicarta.
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