lunedì, ottobre 30, 2006

UN NODO ALLA LINGUA (PASSANDO PER LA GOLA)


«Ai giovani che mi avvicinano dicendomi che vorrebbero scrivere, ormai rispondo: Lasci perdere, non scriva. Telefoni!»

La battuta è di Umberto Eco, rilasciata durante un'intervista nel corso del "Linux Day", giornata dedicata al Software Libero svoltasi il 28 Ottobre 2006. Una freddura divertente, che viene da uno stimabile uomo di lettere che ha conosciuto la trincea del lettore professionista di manoscritti inviati a una casa editrice. Esperienza senz’altro devastante, che ha impresso in modo evidente un forte trauma nella memoria dell’illustre filosofo. Di battute come questa, ad ogni modo, ne esiste un intero repertorio. Ricordo il tormentone adottato qualche anno fa dall'attore Giorgio Albertazzi, il quale diceva spesso di voler dar vita a una scuola in cui, piuttosto che insegnare, si dissuadessero i giovani dall’intraprendere la strada del teatro.
Alla radice di tanto disincanto c’è sicuramente un dato di fatto. Oggi tutti scriviamo. Un po’ tutti, almeno una volta nella vita, ci abbiamo provato. In tantissimi produciamo racconti, saggi e composizioni poetiche, destinandone alcune al cassetto, altre all’autoproduzione, talune a un sito in rete o agli occhi diffidenti del lettore di qualche casa editrice. Un imponente magma di parole dove talento e velleità assoluta si fondono in un brodo dal gusto dubbio di cui è difficile distinguere gli ingredienti.
Perché così tanta gente scrive, spesso selvaggiamente e senza alcuna cura tecnica? Forse il principale motore di questo fenomeno potrebbe essere il fatto puro e semplice che, all’inizio di questo nuovo secolo, ormai tutti riteniamo di saperlo fare. Già, perché in Italia l’analfabetismo è ormai una percentuale discretamente bassa. La maggior parte di noi completa almeno la scuola elementare, e di conseguenza impariamo a leggere e a… scrivere. Si suppone, se non altro, che sia così.
L’avvento di Internet ha aperto le braccia a chiunque ritenesse di aver qualcosa da dire, in un tripudio di siti letterari di matrice amatoriale, home page di aspiranti autori, comunità di esordienti e infine di blogger. Qualche tempo fa, una giovane scrittrice siciliana commentò in modo molto superficiale: «Oggi, con Internet, i modi per un autore di acquistare visibilità sono tali e tanti che se nessuno ti nota significa che non vali proprio niente.»
Qualcuno avrebbe dovuto far notare alla signorina che pubblicare su Internet equivale ad appendersi al collo un cartello con una scritta e vagare per un’affollatissima metropoli dove tutti gli abitanti fanno lo stesso sperando che qualcuno si fermi a leggere proprio il nostro slogan. Una metropoli che cresce a dismisura, mentre proliferano inutili corsi di scrittura e giornalismo disconosciuti dai professionisti del settore.
E’ normale. Se per fare della musica è necessario avere una certa predisposizione, imparare a suonare uno strumento e studiare un bel po’ di anni, è pur vero che chiunque, oggigiorno, è in grado di tenere in mano una penna e mettere giù qualche pagina. E’ l’equivoco più squallido in cui sia mai incorsa l’arte della parola scritta. Un malinteso che, sdoganato dal sentire comune, rischia di diventare una pericolosa realtà.

Oggi, conoscere la lingua italiana non è più una virtù. Non è un bagaglio culturale apprezzabile e non è uno strumento di lavoro che può suscitare rispetto. Anzi, tutto il contrario. I tecnici della nostra lingua, al di fuori del mondo accademico, non hanno il benché minimo ascolto. Dimostrare di saper distinguere tra i diversi tipi di accento, conoscere il senso delle virgole, sembra essere diventato più che altro motivo di scherno. Sempre più spesso ci si sente dire frasi stolide come «La sola cosa importante è farsi capire!» o «Soltanto tu fai caso se l’accento è giusto o no!», e anche «Ma che differenza fa? Sei solo un pedante!» e ancora «Me ne frego se è sbagliato! La mia è scrittura creativa!», fino ad arrivare al demenziale: «Mettere l'accento alle vocali è un vizio che mi sono finalmente tolto!»

Pare che in Italia, negli ultimi decenni, sia andato prendendo piede un generale ripudio della lingua e di buona parte delle sue regole. Una perfetta antitesi di quello che conosciamo come l’orgoglio linguistico di certi paesi anglosassoni, dove se non sei in grado di formulare una discreta pronuncia dell’inglese fingono di non capirti. Noi italiani sembriamo avere introiettato un’immagine al negativo del nazionalismo linguistico britannico. Stiamo sviluppando un totale disprezzo per la nostra lingua, o quantomeno un’imperdonabile strafottenza che tende a generare ulteriore ignoranza, travolgendo anche lo studio delle lettere e della storia. Una catena di cause e di effetti nell’ambito dell’istruzione che non si dovrebbe sottovalutare. Un vero e proprio nodo alla lingua, che perdurando pregiudicherà la nostra crescita interiore.

Alla luce di questi fenomeni, e della relativa pessima scrittura che ne deriva, non è facile dar torto a Umberto Eco. Tuttavia…

Quello che vorrei chiederle, professore, è quale sarebbe oggi, per un aspirante autore, il modo adeguato di mettersi alla prova e stabilire una volta per tutte, con se stesso e con gli altri, se possiede un fottuto talento o soltanto fottuti sogni di gloria? E’ vero, affoghiamo in un mare di mediocrità, ed è naturale guardare con insofferenza chi tenta di fare lo stronzo a galla. Potrebbe essere un talento cui lanciare un salvagente? Con l’aria che tira, è più probabile di no. E allora forse è meglio lasciare che vada giù.

Ma se le cose stanno così, se lo sdegno da parte di chi rappresenta la cultura ufficiale nei confronti della massa degli invasati scriventi è tanto motivata… perché la qualità dei libri pubblicati di recente da case editrici anche importanti è così sconfortante? Perché, soprattutto nell’editoria indipendente (o presunta tale) assistiamo a un proliferare di autori “incazzati” che congedano l’uso razionale della punteggiatura senza disporre minimamente degli strumenti collaudati da Dalton Trumbo o da James Joyce? Dunque la valvola di sicurezza, il filtro intelligente, non funziona. E in qualche modo siamo già avviati sulla strada dell’apocalisse letteraria, con tanto di marchio editoriale.

Forse sono anch’io uno dei tanti velleitari. Probabilmente non valgo nulla e non sono ancora riuscito a farmene una ragione. Ma è dura da accettare quando non riesci nemmeno a farti leggere da un editore “alternativo” che ormai pubblica valanghe di cazzate scritte con bello spregio della lingua italiana. Sì, perché a dispetto dell’autrice innamorata del web, un altro grosso problema per chi scrive è la visibilità. Troppo spesso, ultimamente, mi sento dire «Scrive male. Ma si sa vendere». Una frase pronunciata con veri accenti di ammirazione. E questa, ormai, sembra essere l’unica cosa che conta veramente. Il talento è del tutto opzionale. Viviamo l’era del manager tosto, che sa dove e quando essere presente. Che scriva da cani, o in modo modesto non importa. E’ uscito dall’invisibilità. E non è poco. Anzi, è tutto. Per il sottoscritto, il guaio è che se è orfano di un talento, quello, forse è proprio la capacità di vendersi.

Che dovremmo fare, professore Eco? La sua battuta è simpatica, ma suona molto amara a chi non riesce a farsi prendere sul serio neppure da chi ha più vicino. Del resto, nessuno sarà mai un profeta in patria. In verità, non aspiro più alla pubblicazione o a chissà quali pantagruelici riconoscimenti. Vorrei soltanto accordato il privilegio di esistere. Non di emergere, ma di stare diritto in mezzo alla folla. Per me sarebbe una gioia sapere che qualcuno legge i miei lavori a un amico, animato dalla voglia di condividere con lui una lettura che ha suscitato il suo rispetto. Invece, anche in famiglia, anche tra amici, mi capita ogni giorno di recitare l’altro ruolo. Quello dell’ascoltatore. Di quello cui sono mostrati le ultime righe partorite da un estraneo, e che si sente dire parole come «Non è simpatico? Non scrive bene?», accompagnate da scintille di entusiasmo negli occhi. Invece, no. Sono ancora invisibile. Nonostante Internet, nonostante gli studi, nonostante la fatica.
E la cosa comincia a fare male.

Forse, professore Eco, un giorno anch’io lascerò la penna per il telefono. Non subito, però. Non sono ancora pronto. Forse qualche altra cartuccia da sparare riesco ancora a trovarla. Spero. Devo trovare un modo per ricucire la ferita nel mio amor proprio prima che l’emorragia di entusiasmo mi lasci svuotato.
Non credo ci incontreremo mai, io e lei. Non credo nemmeno che avremmo qualcosa di serio da dirci. E non credo nemmeno di starmi rivolgendo veramente a lei. Se davvero volessi farlo tenterei altre strade, come le lettere… o il telefono.
No. Sto solo ragionando sul concetto di amore per la bella scrittura e sull’eventuale Caporetto suggerita dalla sua battuta. Forse è proprio così. Se in TV danno solo reality, magari conviene staccare definitivamente la spina. O forse conviene far lavorare il videoregistratore, armarsi di pazienza, e cercare un programma che meriti una chance, non saprei.

E per oggi ho già scritto anche troppo, su un problema per cui non ho ancora risposte.

2 commenti:

on the border ha detto...

Ciao,sono ancora io tiz,dirai che palle,anche qui!!
ho creato anch'io il blog e sto vedendo come funziona..passando da un blog all'altro..
il mio commento non posso non metterlo:
sei forte!!

Anonimo ha detto...

A me piace molto il modo in cui scrivi, prova ne sia il fatto che mi sto cimentando nella titanica impresa di leggere tutto il tuo blog dall'inizio.
Di questo post condivido molte osservazioni, in particolare il fatto che saper usare un Italiano dignitoso sia diventato quasi un limite.
Un pubblico di semi-analfabeti (e secondo me gli Italiani lo sono) non prenderà mai sul serio un autore che li costringa ogni tanto a cercare qualche parola sul vocabolario o a riscoprire il senso e l'utilità del punto e virgola. Se fai un salto su IBS e leggi le recensioni dei libri di narrativa, ti renderai conto che basta uno stile un po' più curato (curato, non elaborato) perchè un libro venga giudicato lento e insopportabilmente pesante.
La maggior parte dei lettori non vuole parole e immagini da far sciogliere in bocca, assaporare e assimilare: preferisce gli omogeneizzati soggetto-predicato-complemento e un registro linguistico semplice semplice che non faccia lavorare il cervello.
Le case editrici si adeguano, chè a loro non frega molto di promuovere la cultura: sostanzialmente vogliono vendere. In breve: vista l'aria che tira, se vuoi pubblicare ma hai il grosso limite di saper scrivere... è meglio che disimpari :(