Parlare di questo nuovo sequel a “The Texas Chainsaw Massacre”, anzi di questo prequel (visto che si presenta come un prologo e non come un seguito) non è proprio semplice. Considerando che la sua parentela più prossima è con il remake di Marcus Nispel del 2003, e non con il classico di Tobe Hooper del 1974, sarebbe facile archiviare la sua apparizione come non necessaria e chiuderla lì. Il fatto curioso, però, è che questo film, sotto molti versi pasticciato e superfluo, non è neppure troppo male. Anzi, forse è addirittura meglio di molti altri horror prodotti di recente.
Già con il remake di qualche anno fa, il regista Nispel aveva reso un discreto omaggio al classico “Non aprite quella porta”, evidenziando gli elementi che nel film originale sono identificabili come i semi del genere “slasher”. Il cult di Tobe Hooper, infatti, non raccontava solo l’insensata catena di omicidi da parte di un maniaco invulnerabile, ma presentava un’amara parabole sul degrado della società americana che, avvelenata da un sogno ipocrita nutrito da violenza e imperialismo, finisce con l’inselvatichirsi e divorare se stessa. Tob Hooper raccontava le sinistre imprese della famiglia cannibale attraverso un crescendo ben diverso dai cliché ripetitivi delle pellicole successive. L’apparizione dell’uomo nero e la strage che seguiva non erano il punto forte del film, ma solo la premessa. Il cuore nerissimo della pellicola di Tobe Hooper consisteva nella disavventura dell’unica superstite, condotta viva nella tana dell’orco per conoscere i rituali quotidiani della famiglia del mostro. Un’esperienza davvero scioccante per la mitica Marilyn Burns (battezzata, dopo questo film, la principessa dell’urlo) e per gli spettatori degli anni settanta, costretti ad assistere alla celebre, lunga e agghiacciante parodia della macellazione.
Il remake di Marcus Nispel glissa sugli aspetti antropologici e iconoclasti degli anni settanta, volti a rappresentare il nucleo familiare come principale fucina di mostruosità, e sceglie il terreno dello slasher movie più collaudato. Gli agguati del mostro e le vittime che cadono una dopo l’altra sono distribuiti in modo omogeneo per tutta la durata del film, lasciando molto poco alle dinamiche interne al clan dei degenerati. La stessa pratica del cannibalismo è data per scontata, nessuna informazione ci dice in modo chiaro che Leatherface e la sua famigliola si cibano delle loro vittime. Molto più patinato e decisamente meno cattivo del prototipo, il film di Nispel si elevava comunque sopra la media grazie a una confezione impeccabile, a un discreto senso del ritmo e al carisma dell’attore R. Lee Ermey.
A circa tre anni di distanza, l’industria hollywoodiana, ormai cianotica per la mancanza di nuove idee, ritenta la carta del sequel. Anzi, del prequel. L’intento, dunque, è quello di raccontare le origini della sinistra famiglia Hewitt (ma nel film di Hooper si chiamavano Sawyer). Il tag (frase pubblicitaria) del film, declama: “Assisterai alla nascita del terrore”.
Se lo dicono loro. Da questo punto di vista, la pellicola diretta da Jonathan Liebesman presenta le prime delusioni. Assistiamo, è vero, alla nascita del deforme Leatherface (una cicciona ritardata lo partorisce, morendo subito dopo, in una sordida macelleria, in una sequenza che ricorda molto la nascita del protagonista del “Profumo” di Patrick Suskind nel mercato del pesce). Adottato dalla famiglia Hewitt, Thomas (e non Bubba, come nel film di Hooper) scoprirà presto il lavoro di macellaio e le delizie a questo connesse. Il problema è che la famiglia Hewitt, così come il film ce la presenta, è già pronta per il manicomio sin dalle prime sequenze. E senza che nessuna spiegazione a tanta follia venga data nei minuti che seguono. Vedere Leatherface scoprire la motosega come sua arma ideale o confezionare la sua prima maschera di pelle umana non sono scene abbastanza epiche da giustificare la dicitura di “prologo” a questa nuova avventura dei macellai texani. Ma da dove ha origine la malattia collettiva che ha fatto degli Hewitt una stirpe di moderni orchi? Ancora una volta, tutto è dato per scontato. Non c’è un crescendo psicologico, né risvolti inaspettati. Il clan degli Hewitt è praticamente uguale a se stesso, eccetto che per qualche dettaglio che rimanda al look che i personaggi sfoggiano nel film di Nispel, ma è tutto qui. Dunque, “Non aprite quella porta – L’inizio” non è un vero prequel. E neppure un sequel. Ma un ennesimo remake. Il centesimo, dal momento che il capolavoro horror di Tobe Hooper è stato clonato per decenni, con la produzione di numerosi rifacimenti non dichiarati, come il celebratissimo (e sopravvalutato) “La Casa dei 1000 corpi”.
Tuttavia, il film di Liebesman ha il pregio di riscoprire parte della crudeltà degli horror tipici degli anni settanta. Abbandonato il rito tedioso delle morti a catena, sposta il racconto su atmosfere sadiche e malsane, rifacendosi apertamente alla famosa cena in casa Sawyer, banchetto di cui l’urlante Marilyn Burns doveva essere la portata principale. Stavolta, i protagonisti (e carne da macello) sono due fratelli con le rispettive fidanzate. Siamo negli anni della guerra del Vietnam, e uno dei due, conclusa una licenza, sta per tornare al fronte. Il fratello minore dovrebbe seguirlo, ma segretamente progetta di disertare. Questo conflitto familiare e morale sarà risolto dalla famiglia Hewitt, che trascinerà i quattro malcapitati in una guerra locale, sanguinosa caricatura della follia militare in Vietnam.
Le violenze psicologiche e fisiche riescono a creare un clima davvero sgradevole. Sembra chiaro che, esaurite le emozioni dello splatter e degli effetti speciali, il cinema horror del nuovo millenio voglia recuperare la vena crudele e disturbante inaugurata proprio da registi come Tobe Hooper e Wes Craven con film come “L’ultima casa a sinistra” e proprio l’originale “The Texas Chainsaw Massacre”. Il film, infatti, tiene in tensione e angoscia lo spettatore per oltre metà pellicola. L’orrore psicologico ci stordisce, conducendoci più dalle parti dell’inquietante “Funny Games”, film austriaco del 1997, che nell’arcipelago della progenie slasher. Paradossalmente, l’ansia che comunica fa quasi piacere, illudendoci per buona parte del tempo che il film sia un prodotto riuscito. Purtroppo, dopo una breve rivincita da parte delle vittime, tutto si riallinea nel già visto, e comprendiamo che i minuti restanti ci daranno solo noia e sensazione di déjà vu. Lo stesso R. Lee Ermey, per quanto bravo e sinistro, esce sconfitto dall’intera operazione. Ed è un peccato per un interprete di talento come lui. Purtroppo, Hollywood, come la famiglia Sawyer-Hewitt, cannibalizza anche i suoi figli migliori, stereotipandoli in ruoli fotocopia per tutta la vita. Francamente, nonostante l’indubbia presenza scenica, è difficile dimenticare Ermey con indosso la divisa del sergente carogna di “Full Metal Jackett”. Ruolo che in una quantità di pellicole successive è stato ricucito sulla figura dell’attore con pochissime varianti.
“Non aprite quella porta – L’inizio” piacerà (più o meno) ai fans dell’horror d.o.c. e a quanti non hanno troppa dimistichezza con la mitologia del genere. Un film guardabile, tutto sommato, ma anche deludente nelle sue ovvie conclusioni. Un film (come il precedente remake) pensato soprattutto per i più giovani, che non conservano memoria delle icone e delle sperimentazioni di un periodo glorioso del cinema di genere, e più disponibili pertanto a stupirsi davanti a delle discutibili riverniciature. Speriamo solo che l’industria del cinema statunitense si fermi qui e lasci in pace Leatherface e soci per qualche altro anno. Sono già troppi i remake di classici che si preparano a invadere le nostre sale.
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