Prima di iniziare, devo fare una pubblica confessione.
Sono un autore che si autoproduce. Anzi, che si è autoprodotto, dal momento che la mia esperienza si ferma, finora, a un’unico titolo. Sono anche un autore esordiente (da tutta la vita) che dopo essersi arrabbattato nel mondo del giornalismo e del teatro, si è scelto come ulteriore passione (a quarant’anni) il fumetto. Oggi firmo delle strisce, ho prodotto l’episodio iniziale di una serie e ho in cantiere altri progetti.
Sono quindi coinvolto in prima persona nella polemica che sto per introdurre, e questo mi crea qualche esitazione, giacché, sostenendo determinati argomenti, tiro palesemente acqua al mulino del sottoscritto.
Ma in fondo, perché non dovrei?
La confessione non è ancora finita. Sono un autore, sono esordiente e tutte queste belle storie. Sono anche qualcuno che in passato è inciampato (come tanti) nella tagliola della pseudoeditoria (a pagamento o no, conta poco) e che è rimasto scottato, per non dire traumatizzato a vita.
Sono anche un autore che in passato si è schierato decisamente contro il fenomeno dell’autoproduzione.
Avete letto bene. Il termine autoproduzione, fino a un po’ di anni fa, per me suonava come una bestemmia. A me. Lo stesso individuo che oggi ha scelto di mettere mano al portafoglio per produrre autonomamente un suo fumetto. Perché? Chissà, forse sto invecchiando. Oppure ho avuto il tempo di riflettere meglio su certi aspetti di una questione più sfaccettata di quanto può sembrare.
Il deliro che avete appena letto, nasce in occasione di un recente post del bravo Elvezio Sciallis, blogger al timone di “Malpertuis”. Nel post “Editori a pagamento”, il giornalista-scrittore afferma: “da questo momento in poi non intendo più parlare, scrivere news o recensire prodotti in qualche modo collegati con gli editori a pagamento, print on demand, autoproduzioni e satelliti vari di questa protogalassia. Quindi evitate di inviarmi questo genere di cose, siano essi romanzi, fumetti o cortometraggi.”
Ammetto (e siete liberi di ridere quanto vi pare) che parte della mia amarezza ha tratto origine dal fatto che avevo appena spedito al buon Sciallis una copia (autoprodotta, aimè!) di “Chiron”. Ad ogni modo, gli argomenti che mi si agitano dentro non si esauriscono qui.
Di solito non amo lasciarmi coinvolgere in dibattiti internautici su forum o guestbook di vario genere. Il meccanismo di botta e risposta risulta troppo frammentato e a mio parere la comunicazione ne risente dando spesso luogo a fraintendimenti apocalittici. Più che allo spazio commenti di “Malpertuis”, quindi, preferisco affidare le mie opinioni a un post indipendente, e mi scuso in anticipo se mi dilungherò.
Chiariamo subito che Elvezio Sciallis e io siamo in perfetta sintonia per quanto riguarda il fenomeno degli editori a pagamento. Per “editori a pagamento” intendiamo quelle realtà organizzate (di frequente tipografie “truccate” da un marchio editoriale) che pescano nel mare magno degli esordienti, lucrando sulla semplice (e a volte ingiustificata) necessità di apparire. Insomma: il Gatto e la Volpe.
Elvezio Sciallis scrive: “È sostanzialmente un problema morale e capisco bene come la questione possa essere desueta in Occidente negli ultimi tempi, ma non riesco ad accettare la completa mercificazione dell’arte, l’equiparazione della vendita di scritture alla vendita di ortaggi”.
Niente da eccepire. E’ una questione morale del tutto condivisibile.
Tuttavia, Sciallis inserisce nella sua lista nera anche la voce “autoproduzione”. E pensandoci, oggi, non mi trovo d'accordo.
Cerchiamo, intanto, di comprendere perché la parola “autoproduzione” può suscitare d’istinto diffidenza se non disgusto. Io stesso, come ho ammesso, sono stato in passato molto critico (in modo estremo, come capita quando si è giovani) al riguardo prima di pervenire alle conclusioni che tratterò a tempo debito.
“Autoproduzione” evoca facilmente i fantasmi di volumi dai titoli cacofonici, spesso dalla grafica orrenda, ma soprattutto dal contenuto insulso e trascurabile. Prodotti utili solo a nutrire il narcisismo di uno scrittore della Domenica. Il cofanetto di poesiole scritte dalla maestrina di turno, la dozzinale crime-story del cannibale nato fuori tempo massimo, e chi più ne ha più ne metta. Chiunque abbia praticato per un po’ il mondo della scrittura si è trovato tra le mani prodotti del genere e sa di cosa parlo. Senza per questo mettersi in cattedra, possiamo dire che l’arte vera è un’altra cosa, e va cercata con più cura. Più pazienza. Più umiltà.
Elvezio Sciallis questo lo sa bene. E’ una persona di talento e dall’intelligenza vispa. Il suo blog “Malpertuis” offre divertimento, oltre che informazione, proprio perché affidato alle mani di qualcuno in grado di capire l’aspetto “artigianale” e “sofferto” della scrittura. Elvezio ama il suo “lavoro” e lo difende (giustamente) come un sacro ideale. Tuttavia, devo dissentire dai termini drastici di certe posizioni.
Elvezio afferma che “per quanto cattiva, un’autoproduzione non sarà mai all’altezza degli schiaffi che può darti un editor professionale”.
In primo luogo, praticando il mondo dell’editoria, si scopre ben presto che i celebrati editor sono esseri umani e non divinità forti di un dogma che li vuole infallibili. Al di là delle oggettive competenze professionali, gli editor sono creature di carne e sangue, a volte dediti al Prozac, o avviliti dalle proprie miserie quotidiane al pari di un idraulico. Il loro mestiere, la loro perizia, è inoltre subordinata a ingranaggi commerciali che non vanno sempre nella stessa direzione della qualità. Gli editor non sono paladini dell’arte. Non vanno alla ricerca del Santo Graal, né sono pronti (perché dovrebbero?) a morire sulle barricate in nome del talento (vero o presunto) di chicchessia. E’ gente normale, che lavora con l’ossessione di sbarcare il lunario, e tra loro – come in tutti i campi – troviamo i valenti e i mediocri. In parole povere, non mi sembra opportuno affidare con cieca fede alla categoria di questi professionisti la missione di separare il grano dal loglio. Non in modo così assoluto, almeno. Oltretutto, il panorama letterario di oggigiorno ci suggerisce che le cose non vanno proprio per il verso giusto. Vediamo l’industria dell’editoria vomitare ogni anno una quantità di istant-book ispirati da evidenti motivi alimentari. Volgarissimi libri scritti da comici da due soldi. Romanzetti d’amore che rispondono ai più scontati cliché popolari, e una montagna di materiale in cui la lingua italiana sta progressivamente andando a quel paese (con buona pace degli infallibili editor). Non dimentichiamo, tra l'altro, che pochissimi editori sono disposti a rischiare puntando su autori sconosciuti e non omologati, e che spesso la cura editoriale consiste nel livellare la materia prima allo standard ritenuto più vendibile. Tutto questo non incoraggia a pensare che gli angeli stiano seriamente vegliando sulle sorti dell’arte che ci sta a cuore. E questo vale per la letteratura come per la televisione o il cinema (in caduta libera) e persino per il fumetto.
Torniamo, ora, alla questione “autoproduzione”. Anzi, facciamo un passo indietro, e chiediamoci di nuovo: perché qualcuno dovrebbe autoprodurre un proprio lavoro?
Perché ha soldi da buttare? Perchè, altrimenti, il suo narcisismo frustrato non lo lascerebbe dormire? Perché amici e parenti (anche solo per educazione) si complimenteranno, e lui potrà deliziosamente bagnare le mutande? Perché è un modo per sottoporre il proprio lavoro a una fetta di pubblico che non usa Internet privilegiando le letture su carta? Perché spedire qualcosa di stampato ha più chance di essere letto di un file documento? Per mettersi alla prova? Perché scripta manent, ed è pratico aver fatto una piccola apparizione su carta (specie se parliamo di un fumetto) prima di presentarsi a un editore (anche solo per far vedere direttamente che impressione fa il prodotto)? Si potrebbe andare avanti all’infinito. E tutte queste possibilità (più o meno lecite) sono ascrivibili al meccanismo dell’autoproduzione.
Se non ci attardiamo a sguazzare nel moralismo più superficiale, dunque, scopriremo che le ragioni possono essere tante. E non tutte disprezzabili. E’ vero, la fetta più grossa dell’autoproduzione è ciarpame frutto di febbre onanistica. E questo ci rende antipatica l’etichetta in esame. Ma è pur vero che la penicillina ha origine dalla muffa, e che se certi fenomeni non esistessero, e non venissero osservati, verrebbe meno un campo dal quale si potrebbero raccogliere, un giorno, anche dei frutti saporiti. L’autoproduzione è stata (e sarà sempre) anche all’origine di molte realtà lodevoli. Alcuni autori (ignorati dalle grandi etichette) sono emersi contando solo sulle proprie povere forze, fondando riviste all’inizio autoprodotte e diventate in seguito realtà editoriali di tutto rispetto. All’origine stessa di alcune case editrici ci sta la passione, il sacrificio e il fai da te di autori un tempo sconosciuti. Attraverso l’autoproduzione sono nate collaborazioni tra artisti che difficilmente si sarebbero incontrati. Sono esistite fanzine che nel tempo si sono trasformate in magazine professionali, e grandissimi autori che, dopo la gavetta nel settore degli indipendenti, sono diventati dei veri idoli del mercato mainstream (Leo Ortolani, su tutti. Solo per parlare di storia recente). Dall'autoproduzione ha avuto origine anche l'underground e tutti i suoi successivi sviluppi. Volerlo ripudiare significherebbe cancellare una parte di storia della cultura. Non è, insomma, un argomento che si può liquidare con due parole. Non senza far torto anche a grandi artisti del passato (italiani e stranieri) esclusi, in vita, dal sancta sanctorum della cultura nazionale solo perché i tempi non erano maturi.
Per questo considero una svista, da parte di Sciallis (animato comunque da ottime intenzioni), l’aver messo l’autoproduzione (con tutte le sue ambiguità) nel medesimo crogiolo di editori a pagamento, servizi di print on demand e così via. Quel che Elvezio Sciallis forse non ha considerato è che l’affermazione (assoluta e rigorosa) di non voler dare più spazio alle autoproduzioni può essere letta con altre parole. Parole forti e tuttavia pertinenti, leggibili a chiare lettere tra le righe. Sì, perché il concetto espresso, e il suo conseguente risultato, in definitiva è il seguente: “Pur essendo in grado di riconoscere il valore di quel che leggo, non intendo più concedere ascolto, visibilità, solidarietà, a esordienti che non siano già stati unti dal Signore”.
E davanti all’atto di fede (nonostante la chiesa di cui parliamo abbia già mostrato abbondantemente il suo volto fallace) non è più possibile per me interloquire.
Posso solo aggiungere che questa scelta mi addolora moltissimo. Semplicemente perché il suo principale effetto sarà quello di rendere sempre più nebbioso il limbo in cui sono confinati gli autori esordienti. “Malpertuis”, proprio perché gestito da uno scrittore in gamba e animato da passioni impetuose, era – sarebbe stato – un ottima tribuna anche per quella che potremmo definire (mi si passi il termine, forse datato) una nuova cultura underground. O comunque “alternativa”.
E’ vero. E’ una questione morale. Altamente morale. Il talento, quello nobile, va coltivato come i fiori in serra. Ma non sarà il fine etico che abbiamo in comune (vale a dire l’arte) a giovarsi di questo filtro tanto stretto. Se ne gioverà soltanto il mercato egemone, lo stesso che produce “Tre metri sopra il cielo”, cui serve poco la visibilità offerta da chi scrive per passione. L’esordiente avrà trovato una porta chiusa in più.
E questo per me, scusate lo sfogo, è un po’ meno morale. Forse è più “moralista”.
Ed è sicuramente un peccato.
2 commenti:
:)
Guarda, ti dirò che io mi considero una persona sempre pronta a ripensamenti e riconsiderazioni.
Ritengo che proprio questo msia lo scopo del discutere.
E i vari commenti e le discussioni nate in seguito al post mi hanno fatto e mi stanno facendo riflettere, ovviamente.
Quindi non si sa mai, potrei rivedere alcune posizioni, ma devo prima lungamente metabolizzare.
Scontato però che parlerò del tuo Chiron, anche perchè arrivato molto prima del post, è solo questione di tempo, dicembre è un mese atroce per via di vari impegni...
Ti ringrazio doppiamente. Per la visita e per la serietà che dimostri.
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