Dopo una campagna publicitaria “virale” su Internet durata mesi, una programmazione dagli incassi non proprio epocali nelle sale italiane, pareri discordanti di amici corsi precocemente in sala (molti dei quali comunque entusiasti), “Cloverfield” il “monster movie” partorito dalla mente di J.J. Abrams (il creatore di Lost) e diretto dal regista esordiente Matt Reeves, mi ha finalmente raggiunto.
Non sono ancora in grado di assegnare un voto al film appena visto. La pellicola disorienta per più ragioni. Eppure il fatto che, dopo averci dormito su, ci stia ancora pensando è significativo.
“Cloverfield” non è un prodotto che si può liquidare con due parole. In qualche modo cattura e inquieta lo spettatore, stordendolo con una razione di adrenalina di cui il cinema è ormai avaro da tempo. Ma quel che seduce è soprattutto la lettura successiva alla prima visione di questo film che, ricordiamolo, è una sorta di mix tra il falso documentario alla “The Blair Witch Project” e “Godzilla” (solo per citare un titolo rappresentativo della cinematografia inerente ai mostri giganti).
Ma parliamo d’altro. Il punto nevralgico della campagna pubblicitaria voluta da Abrams era la natura e l’aspetto del mostro. Ipotesi, bozzetti, false rivelazioni, si sono avvicendate in rete inducendo molti a pensare che (alla maniera della celebre strega di Blair) l’immensa creatura responsabile della decapitazione della Statua della Libertà (in quella che è già diventata la scena più famosa del film) non si sarebbe mai vista, e che del suo terribile aspetto ci sarebbe pervenuto solo qualche dettaglio fugace e le testimonianze confuse dei protagonisti.
Non è così. Poco per volta, il misterioso essere (orripilante proprio perché inqualificabile) è rivelato allo spettatore in tutta la sua brutalità.
Ma, si dovrebbe precisare, non è il “vero” mostro del film.
Soffermarsi sulle (ovvie) pecche logiche, sarebbe forse puerile. Di base, stiamo assistendo a un film fantastico e d’azione, fatto di ansia, fracasso e paura. Passino dunque i pretesti narrativi debolucci per cacciare i protagonisti nell’occhio del ciclone. Passi la notevole resistenza della videocamera a mano (sempre inesorabilmente accesa e funzionante), che potrebbe indurre a sorridere o a invocare una dose massiccia di sospensione dell’incredulità. In realtà, in agguato tra queste considerazioni scontate, si nasconde qualcosa di più subdolo e... mostruoso.
Il vero mostro di “Cloverfield”, sembra suggerire J. J. Abrams, non è l’essere devastante arrivato da chissà dove. E’ qualcosa che è già tra noi. Qualcosa che fruiamo in modo costante, che fa parte del nostro quotidiano. Qualcosa che ci tiene in pugno, che condiziona persino le nostre azioni. Un’entità onnipresente e terribile nella sua marcia impietosa tra le rovine di una Manatthan assediata.
Il mostro protagonista di “Cloverfield” è proprio la videocamera. O meglio, l’odierna cultura dell’immagine, dell’apparire a tutti i costi per esistere. Più che strumento per documentare il dramma, la famigerata handycam è usata come un feticcio ancestrale che accende illusioni, e che – di fronte all’inevitabile – potrebbe permettere di sopravvivere al proprio stesso annientamento. Come il mostro, la videocamera viene più volte colpita, ma non distrutta. In un inquietante gioco di specchi, essa si scambia informazioni con i televisori al plasma di uno store saccheggiato dagli abitanti impazziti. E’ la fame di reality, ultima frontiera di una presunta promozione dall’esistenza anonima a uno stato di notorietà globale. Non a caso, nella prima parte del film ci viene mostrata la coppia protagonista giocare con la fatale handycam e la giovane dirsi preoccupata all’idea di finire su Internet.
A divorare la gente è proprio l’occhio di questa macchina infernale. Inarrestabile nel suo significato metaforico. Un gorgo che ingoia tutto, tritando immagini, schiacciando vite, senza porsi domande, senza compassione. Non importa l’assenza di un vero intreccio, come non conta l’assenza di spiegazioni sulle origini del mostro (a parte il subdolo dettaglio nascosto nelle sequenze finali). “Cloverfield” è un incubo visivo sulla spietatezza della nuova visibilità totale, e nello stesso tempo un appassionante gioco nerd. Per i fans dell’horror è sufficiente ricordare le premesse e il finale di qualsiasi monster movie del passato per colmare le lacune della trama. Quel che conta, qui, è il punto di vista di chi, nelle pellicole precedenti, era sempre stato solo comparsa, o anonima carne da macello. Un signor nessuno con una personalità posticcia che solo un reality può provare a convertire in personaggio. Un soggetto debole, che l’industria visiva e il totem del villaggio globale trasforma nello stesso tempo in consumatore e merce da consumare. La vittima predestinata di un meccanismo sociale e commerciale ormai dilagante. Come una maledizione, il morso infetto di una creatura sconosciuta che ti fa sanguinare e scoppiare dall’interno.
L’occhio maledetto di una mostruosa, inarrestabile videocamera.
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