lunedì, settembre 06, 2010

L'Occhio della Fotocamera: Incubi e Meraviglie


Sono trascorsi molti anni da quando il fotografo freelance Phil Sheldon ha pubblicato il suo libro intitolato Marvels, dedicato alla comparsa dei primi eroi in costume. Da quei giorni il mondo è cambiato. In peggio. Le zone d’ombra, un tempo circoscritte, si confondono sempre più con la luce e le gloriose “Meraviglie” sembrano assomigliare di più a inquietanti incubi. Le gesta degli eroi si fanno tortuose, eticamente ambigue, mentre nelle strade aumentano violenza e caos. Phil Sheldon dovrà documentare questo sviluppo,  decifrare la nuova percezione dei vigilanti presso la gente comune e fare i conti con le proprie scelte passate. E tutto mentre combatte il cancro che lo sta uccidendo.

Marvels - L’occhio della fotocamera, è l’attesissimo seguito di Marvels, storica miniserie pubblicata nel 1994 e subito assurta a oggetto di culto tra i lettori più fedeli alla casa delle idee statunitense. Marvels
rappresentava un compendio affettuoso degli eventi cardine dell’universo Marvel collocati tra gli anni quaranta e la prima metà dei settanta del secolo scorso, mostrati attraverso l’inedita prospettiva della popolazione ordinaria. Narratore ed espediente formale era già allora il personaggio di Phil Sheldon, fotografo coraggioso i cui dubbi e timori erano il polso di un’umanità testimone di fenomeni straordinari. Altro elemento formale che esprimeva lo spirito fondante del racconto era il lavoro grafico svolto da Alex Ross, illustratore che deve proprio a Marvels il suo definitivo lancio internazionale. La tecnica dell’illustrazione fotorealistica, realizzata pittoricamente su accurate prove fotografiche, serviva a trasmettere al lettore quel senso straniante di una realtà quotidiana invasa dal meraviglioso. Tra le pieghe ineleganti di calzamaglie mai così carnevalesche, scaturiva l’emozione di un’illusoria verità. Gli eroi potevano apparire realistici fino a essere goffi, ma il vero protagonista era il sentimento di fondo. Lo stupore, a volte misto a sgomento, di chi osserva creature mitologiche camminare sulla terra. Marvels si apriva con la presentazione degli eroi sorti durante il periodo bellico e si concludeva con la morte di Gwen Stacy, evento di solito indicato come spartiacque tra il periodo più leggero e l’introduzione dell’elemento cupo e drammatico nelle storie di supereroi.

Dopo quasi vent’anni, il mondo e il punto di vista di Marvels torna. E ritorna anche Phil Sheldon, pensionato, stanco, malato. Più confuso e più umano di prima. Una lunga attesa per un seguito che, seppure non esattamente imperdibile, sarebbe meglio non dare per scontato, e che riesce nonostante tutto a fare breccia nel cuore dei lettori di vecchia data. Come lo sfogliare un vecchio album di famiglia e riconoscervi zii e cugini più o meno amati. Perché questo sono Marvels Marvels – L’occhio della fotocamera. Dei piccoli compendi celebrativi volti a suscitare nostalgia e a fornire spunti di riflessione sui mutamenti sociali che attraverso i decenni hanno influenzato anche lo stile del fumetto popolare, modificandone approcci e tematiche. Influenzando le aspettative del lettore e di conseguenza le sue reazioni. Non si può negare che se Marvels era un lavoro che poteva essere fruito appieno soltanto da chi era in grado di riconoscere i grandi eventi cui accennava, questo L’occhio della fotocamera risulta ancora più ostico. Forse per la mole degli avvenimenti citati (e stipati) nel volume, che coprono un arco di anni piuttosto vasto. Forse per gli accenni fugaci a saghe sempre più contorte, prodotte in un periodo in cui erano frequenti i crossover e in cui lo status quo degli eroi subiva evoluzioni costanti. In definitiva, Marvels – L’occhio della fotocamera, come già il suo illustre predecessore, non è una lettura adatta a tutti i palati.



Lo spunto fondante de L’occhio della fotocamera, e motivo di confusione per il malandato ma tenace Phil Sheldon, è l’avanzare dell’oscurità nel reame delle meraviglie. L’avvento di personaggi mostruosi come Ghost Rider, Morbius, Man-Thing. Ma soprattutto l’arrivo dello spietato Punisher, un vigilante che gareggia in crudeltà con gli stessi criminali che abbatte, eppure capace di compiere, all’occorrenza, inattesi atti di puro eroismo. La condotta degli eroi si fa imprevedibile, dettata da eventi non sempre di immediata comprensione. La fobia mutante non accenna a esaurirsi mentre nuovi X-Men, più sinistri dei primi, guadagnano la ribalta sfoderando affilati artigli. Mentre Phil si sforza di dare un senso al tempo che gli resta da vivere, il mondo intorno a lui sembra impazzire e tutti i suoi punti fermi incrinarsi mischiando bianco e nero in un enigmatico scenario fatto di tonalità equivoche. Capitan America, tradito ripetutamente dal paese che rappresenta, si trasforma in Nomad, solo per scoprire che questo non cambierà nulla. Attraverso gli occhi di Sheldon assistiamo a eventi incresciosi legati all’emergente alcolismo di Iron Man. Veniamo a sapere di Henry Pym e dell’esaurimento nervoso che lo ha indotto prima a picchiare la moglie, e in seguito a commettere atti inconsulti che causeranno la sua espulsione dalla squadra dei Vendicatori. La temporanea separazione tra Reed Richards e Sue Storm dei Fantastici Quattro. Le imprese dell’assassina Elektra e la sua morte per mano del sicario Bullseye. Una catena di fatti sanguinosi e terribili, rischiarati ogni tanto da un imprevisto lampo di speranza. Sono molti gli eventi che restano pressocché indecifrabili per Phil Sheldon e i comuni esseri umani, come l’arrivo dell’Arcano e le seguenti Guerre Segrete. Le sempre più frequenti invasioni da parte di creature di altre dimensioni, i doppi giochi di X-Factor nella spinosa questione mutante. La redenzione di Magneto e gli imprevisti atti di altruismo a opera di criminali ritenuti irrecuperabili. Una sarabanda apocalittica durante la quale gli eroi non fanno che cadere e rialzarsi, fino all’apparente morte in diretta televisiva degli X-Men a Dallas.

Se l’approccio fotografico usato da Alex Ross era azzeccato per il primo Marvels, dove ben rendeva il punto di visto umano con cui erano osservati i supereroi, con L’occhio della fotocamera il discorso cambia. Il disegnatore filippino Jay Anacleto, chiamato qui al fianco dello sceneggiatore Kurt Busiek a raccogliere l’eredità illustre del suo predecessore, è un artista dalla personalità abbastanza diversa. Così com’è diverso l’approccio alla trama utilizzato da Busiek, già autore insieme a Ross della miniserie capostipite. Si è fatto un gran parlare, dopo l’exploit di Alex Ross, del suo stile fotorealistico e della presunta continuità con i disegni di Anacleto. In realtà, la somiglianza è solo superficiale e di fotorealismo, ne L’occhio della fotocamera, rimane ben poco. Questo non significa che sia un male. I decenni che ci separano dalla prima uscita di Marvels hanno visto il sorgere di molti artisti dallo stile variegato e sperimentale. Quello di Jay Anacleto, illustratore che si è fatto le ossa nel campo del fantasy, è un disegno più pittorico e iperrealista che propriamente fotografico. Ed è quello che ci vuole per il seguito di Marvels, dove la chiarezza dei ruoli è andata perduta, gli eventi si rincorrono contraddittori e misteriosi, e per i comuni mortali è sempre più difficile orientarsi. Il lavoro di Anacleto fornisce al racconto una plasticità distante dagli effetti pseudorealistici (e tutto sommato un po’ stucchevoli) di Alex Ross, e conferisce alla trama un sapore tenebroso. Credibile e nello stesso tempo sfuggente come una sequenza onirica.

L’occhio della fotocamera non è un fumetto perfettamente riuscito. Risente in parte del suo essere un sequel, giunto per di più dopo un lungo intervallo. Forse fuori tempo massimo. Gli pesa il suo velo di tristezza là dove il suo predecessore mostrava l’alba di un’era epica. Il tono crepuscolare, scandito dalla malattia del protagonista, parla tra le righe della caducità della vita, di bilancio esistenziale all’ombra dei grandi eventi e di responsabilità personali. Tuttavia, superato il ritmo lento e francamente scontato dei primissimi capitoli (ulteriormente appesantiti da un confuso riassunto del volume originale), la trama in qualche modo alza la testa. Il pensionato Phil Sheldon, aggrappato alla vita nonostante le molte amarezze, riesce a conquistare il lettore e a condurlo fino alla fine, quando l’imprevisto ritorno di un personaggio che non ci aspettavamo di rivedere regala qualche istante di autentica commozione. Ancora più che in Marvels, ne L’occhio della fotocamera il vero tema è la possibilità di essere eroi. Nonostante gli errori. Nonostante la sconfitta. Un argomento ormai frusto nei fumetti di supereroi, ma raramente affrontato con la delicatezza dimostrata da Kurt Busiek nelle pagine finali di questa miniserie. Il personaggio di Phil Sheldon, nato in Marvels per essere un mero espediente narrativo, un occhio sulle vicende degli eroi più blasonati, cresce, invecchia e diventa il vero protagonista della sua storia. Così il titolo acquista un senso diverso. Da Marvels, Meraviglie a L’occhio della fotocamera. Ma potremmo anche dire:  l’uomo dietro l’obiettivo. Per quanto gli eventi narrati possano essere apocalittici, stavolta stiamo maggiormente al fianco di Phil, lo seguiamo e ne siamo coinvolti. L’essere umano torna, insomma, a essere il perno del racconto, e sebbene L’occhio della fotocamera sia lontano dall’essere un capolavoro, è una lettura densa per chi è cresciuto con i fumetti Marvel. A tratti toccante, in grado di suscitare autentica nostalgia. E in fondo, non è poco.


Questa recensione è stata pubblicata anche su Fantasymagazine.



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